Cultura, cinema e arte

Intima Belle Époque di Fabrizio Catalano

Sciascia sa anche cucinare ... Ricordando lo scrittore attraverso lo sguardo di suo nipote


Intima Belle Époque di Fabrizio Catalano

Intima Belle Époque
di Fabrizio Catalano
Ho vissuto in diverse città, cambiato più appartamenti, salito ripide scalinate e vagato tra
le sterpaglie; mi è capitato di risvegliarmi nell'abbacinante albeggiare nel tropico boliviano
o cercando spiragli di chiarore in uno squallido cortile parigino, mi sono addormentato nel
silenzio torpido di austere città fiamminghe o astraendomi dal fastidioso sferragliare degli
autobus romani. Ancora oggi, però, uno dei luoghi più ricorrenti nei miei sogni è la casa dei
miei nonni materni: in Viale Francesco Scaduto, a Palermo. Tra quelle pareti popolate di
quadri e librerie e quelle finestre aperte sul verde frusciante degli alberi e il cinguettio
degli uccelli ho trascorso una parte del mio involontario soggiorno sulla Terra: da bambino,
impregnandomi di quell'odore di legno e carta, a volte nel silenzio immerso a fantasticare,
a volte braccato per i corridoi semibui da ominidi immaginari – suggestioni che
germogliavano dalla lettura di trattati di paleontologia o dall’ascolto di viniliche antologie
di musica etnica –; da ragazzo, dopo la morte di mio nonno, con mia nonna dividendo
riposo e letture; da adulto, ogni volta che torno nella mia città natale. Oggi invece
l'appartamento odora di chiuso. Eppure oggi io lì – magia o illusione? – sprofondo in una
quiete senza tempo e rivedo i primi anni della mia esistenza: l'abat-jour accesa sul
comodino, il soffio strisciato del giradischi, lo sfrigolare delle pagine, il ticchettio dei tasti
della macchina da scrivere, le mattonelle bianche e blu della piccola cucina, le affiche della
Belle Époque, le chimere, le aspirazioni.
Nonostante tutto, il tempo, in quella casa, sembra essersi fermato; così come a volte – anzi,
spesso – io cerco di bloccarlo nella mia testa, leggendo un libro, perdendomi negli occhi
delle viole di una litografia di Giuseppe Viviani che da piccolo m'attraeva e
m'impressionava, fissando le lampadine addolcite dalle coppe dei lampadari liberty. Tel
qu'en lui-même enfin l'éternité le change: questi versi di Mallarmé, incisi su un’immaginaria
tomba di Poe e nella storia della poesia, descrivono come meglio non si potrebbe le
sensazioni che provo passeggiando per quelle stanze, sedendomi su una di quelle poltrone,
toccando uno dei sigilli che mio nonno e io toccavamo insieme, all’epoca dell’incoscienza e
dei sogni, che lui mi ha donato e che ancora stanno lì: quieti testimoni, immoti sorveglianti
di un mondo che soltanto la Memoria mantiene in vita. Sulla scrivania, ancora la foto di
Pirandello: il padre che, per certi versi, Leonardo Sciascia s'era scelto. Dietro, i ritratti di
Stendhal, Voltaire, Hugo, Apollinaire. Oltre alla persistente presenza – per me che appunto
coltivo e inseguo la memoria quasi come il delirante protagonista di quel vecchio racconto
americano che ambiva a raggiungere i ricordi dei suoi antenati, perfino nella dimensione
pre-umana (1)– di quei ritratti che oggi sono esposti alla Fondazione Sciascia: e mi è capitato,
in questi anni, nel vedere al cinema o in televisione degli attori che interpretavano i ruoli di
Zola o di Gorkij, di confrontarli non già con delle fotografie, ma con le due poderose
litografie, di de Groux e di Steinlen, che sormontavano la libreria dello studio di mio
nonno.
Effluvi, melodie, suggestioni sbrigliano le rimembranze: e decine di momenti, ora
proponendosi prepotentemente, ora celandosi nelle tenebre di un'immaginaria mente
tridimensionale, s'affastellano e s'accalcano: la luce fioca di un'altra cucina – quella della
casa di campagna – accesa mentre mio nonno prepara una frittata coi fiori di zucca, le
lunghe passeggiate contro il sole digradante sulla stradella sterrata, l'incessante viavai di
visite, di automobili che arrancano sulla salita, di voci e di risate, il silenzio della sera con le
lunghe ombre della luna piena, il riflesso sulle pietre di sale, il canto degli assioli e
l'abbaiare di cani vagabondi. L'ultimo, vero viaggio che ho fatto con i miei nonni, alle soglie
dei tredici anni: in Friuli, alla scoperta dell'indipendenza, di un'umanità diversa, dei
turbamenti dell'adolescenza; e il placido ritorno, immancabilmente in treno, verso la Sicilia,
passando da Milano e da Roma.
Ma tutto questo, senza la grata responsabilità che in me percepisco, sarebbe poca cosa.
Sarebbe poca cosa, senza il senso di un'eredità etica di cui mi ritengo – nel mio piccolo, e
forse comunque a torto – portatore. Lo so: mi esprimo in una maniera naturalmente
involuta che sfiora la retorica, ma non c'è niente di ampolloso, esagerato o vanesio in ciò
che sto scrivendo. All'opposto: si tratta d'un rovello che sovente sovrappongo alle mie
scelte. Ha detto di recente il sociologo Ercole Giap Parini che Sciascia ci insegna l'esercizio
del dubbio; ed è proprio questo esercizio, che sconfina a tratti nell'ossessione o nella
solitudine, che io vivo come una grata responsabilità.
Mi è stato chiesto più volte, in quest'ultimo anno, cosa mio nonno avrebbe pensato delle
contingenze che stiamo vivendo; e a me è sembrato opportuno ripetere una risposta
dapprincipio germogliata dall'istinto: e cioè che con Sciascia – e con Pasolini, Marcuse,
Sartre, Scorza e altri più o meno insepolti nella memoria collettiva – tanto il virus che la
deriva finanziarizzata della nostra società non sarebbero esistiti, perché essi sono il frutto
malato di un tessuto sociale ormai con scarsissimi anticorpi. Anticorpi culturali, ma anche
legati alla dignità e perfino al pudore. E così nelle mie orecchie sono affiorate delle frasi:
mio nonno le ha scritte più quarant'anni fa, e nel 1979 le ha pubblicate in Nero su nero;
eppure sarebbe difficile, oggi, descrivere con maggior efficacia il vuoto in cui è – quasi
senza accorgersene – piombata gran parte del mondo umano.
Un’idea morta produce più fanatismo di un’idea viva; anzi soltanto quella morta ne produce.
Poiché gli stupidi, come i corvi, sentono solo le cose morte. E sono tanti, e talmente brulicano sulle
cose morte, da dare a volte l’impressione della vita.

 

(1) The Dark Chamber di Leonard Cline.



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